Capitolo otto LA CENSURA AZIENDALE Barricare il "villaggio griffato" Ogni due settimane tolgo dagli scaffali ciò che non considero all'altezza di Wal-Mart. Teresa Stanton, direttore del Wal-Mart di Cheraw, Carolina del Sud, a proposito dell'abitudine di questa catena di censurare le riviste con copertine provocatorie. The Wall Street Journal, 22 ottobre 1997. L'assalto alla libertà di scelta, in alcuni casi, si è spinto ben oltre la predatoria vandita al dettaglio e le sinergie monopolistiche, sfociando in una deliberata eliminazione del materiale indesiderato definibile unicamente come censura. La censura viene in genere interpretata come una limitazione dei contenuti imposta dai governi o da altre autorità statali, o richiesta con insistenza, soprattutto nelle società nordamericane, da gruppi di pressione per motivi religiosi o politici. Tuttavia una tale definizione pare, in modo sempre più evidente, obsoleta. Anche se non mancheranno mai i Jesse Helms e le beghine pronte a mettere al bando i concerti di Marilyn Manson, questi piccoli drammi stanno rapidamente diventando eventi secondari nel contesto di ben più gravi minacce alla libertà d'espressione. La censura aziendale è strettamente correlata ai media e alle aziende di vendita al dettaglio: essi hanno un'influenza tale che perfino semplici decisioni su che articoli vendere in un negozio e su che tipo di prodotti culturali richiedere - decisioni oppurtanamente lasciate ai titolari delle società o a chi fa cultura - hanno oggi conseguenze decisive. Chi prende queste decisioni ha il potere di riprogettare e plasmare l'intero panorama culturale. Quando le riviste vengono tolte dagli scaffali di Wal-Mart dagli stessi direttori, quando vengono modificate le copertine dei CD per renderle più adatte a Kmart o quando Blockbuster rifiuta dei film perché inadeguati all'immagine di "intrattenimento per famiglie" della catena, si tratta di decisioni che vanno a interferire con l'industria della cultura, incidendo non solo sui prodotti la portata di mano nei centri commerciali, ma anche sull'origine degli stessi. Sia Wal-Mart che Blockbuster hanno le loro radici nel Sud degli Stati Uniti, cuore del cristianesimo, e per l'esattezza Blockbuster in Texas e Wal-Mart in Arkansas. Entrambe le aziende sono convinte che la chiave del loro successo finanziario e della forte attrazione esercitata sul pubblico di massa stia proprio nella loro natura di negozi "destinati alle famiglie". L'idea di fondo (adottata anche da Kmart) è creare un centro di intrattenimento adatto a tutte le famiglie, dove mamma e papà possono noleggiare l'ultimo successo cinematografico e comprare il nuovo disco di Garth Brooks a pochi passi dagli scaffali su cui Johnny può trovare Tomb Raider 2 e Melissa può "languire" un po' ascoltando Alanis. Per proteggere questa formula, Blockbuster, Wal-Mart, Kmart e tutte le più importanti catene di supermercati adottano una politica di rifiuto verso qualsiasi tipo di materiale che potrebbe in qualche modo minacciare la loro immagine di aziende di commercio "per famiglie". La ricetta di questi centri commerciali in cui si può trovare 'di tutto e di più' è troppo redditizia per rischiare di danneggiarla. E così Wal-Mart e le catene di supermercati, che insieme incidono per il 55% delle vendite nelle edicole statunitensi, rifiutano di vendere qualsiasi giornale giudicato offensivo per l'eccessiva nudità delle modelle in copertina o per articoli del tipo "Perché ho lasciato mio marito per una donna".1 La politica di Wal-Mart e Kmart è poi di rifiutare CD con copertine o canzoni che trattano troppo esplicitamente o temi sessuali o argomenti che la "culla del cristianesimo" reputa scandalosi: aborto, omosessualità e satanismo. Nel contempo, Blockbuster, che controlla il 25% del mercato statunitense degli home-video, fornisce un gran numero di film violenti o con scene di sesso, ma rifiuta tassativamente le pellicole classificate NC-17, ovvero vietate ai minori di 17 anni, anche se accompagnati da un adulto. Secondo la versione delle aziende, tale censura è semplicemente uno dei tanti servizi offerti a una clientela che dà grande importanza alla famiglia, proprio come i volti sorridenti dei commessi e i prezzi ridotti. "I nostri clienti sono consapevoli che le nostre scelte in fatto di distribuzione di dischi e video non sono altro che un tentativo, guidato dal buon senso, di offrire il genere di materiale che amano acquistare", spiega Dale Ingram, direttore delle relazioni aziendali di Wal-Mart. La linea di Blockbuster è invece la seguente: "Rispettare le esigenze delle famiglie al pari di quelle dei singoli individui".2 Wal-Mart può permettersi di essere particolarmente esigente dal momento che il settore dell'intrattenimento rappresenta solo una percentuale limitata del suo giro d'affari. Nessun singolo successo cinematografico o musicale è in grado di intaccare in qualche misura i profitti di Wal-Mart, situazione questa che consente all'azienda di tener testa a tutti gli artisti più in voga e di difendere la sua visione di uno spazio per lo shopping in cui gli elettrodomestici e gli album di musica hip-hop vengono venduti gli uni accanto agli altri. Il caso più famoso in proposito riguarda il rifiuto dell'azienda di vendere il secondo album dei Nirvana, "In Utero" - benché il lavoro precedente avesse ricevuto quattro dischi di platino - perché sul retro dell'album erano rappresentati dei feti. Da Wal-Mart "artisti country come Vince Gill e Garth Brooks si venderanno meglio dei Nirvana", ha dichiarato all'epoca con la massima tranquillità Trey Baker, portavoce dell'azienda.3 Di fronte alla prospettiva di una perdita stimata di profitti pari al 10% (la percentuale di vendite di dischi al tempo realizzata da Wal-Mart negli Usa), la Warner e il gruppo dei Nirvana fecero marcia indietro e modificarono l'immagine. Cambiarono inoltre il titolo della canzone Rape Me (Violentami) in Waif Me (Abbandonami). Kmart Canada ha assunto una posizione simile nei confronti del disco dei Prodigy del 1997 "Fat of the Land", sostenendo che la copertina e le canzoni Smack My Bitch Up (Schiaffeggia la mia puttana) e Funky Shit (Merda funky) non erano adatte all'immagine del centro commerciale. "I nostri clienti-tipo sono madri sposate che lavorano e abbiamo pensato che questo prodotto fosse inadatto a uno store per famiglie", ha dichiarato il direttore Allen Letch.4 Come i Nirvana, anche i "cattivi ragazzi" inglesi hanno dovuto cedere alle richieste della casa discografica e registrare una versione ripulita dell'album. Questo tipo di censura è ormai così radicato nel processo produttivo che viene spesso considerato come un'ulteriore fase di revisione del prodotto. A causa della politica di Blockbuster, molti dei più importanti studi cinematografici hanno smesso definitivamente di realizzare film che verrebbero poi classificati come NC-17. In qualche rara eccezione, vengono invece prodotte due versioni una destinata ai cinema e l'altra fatta su misura per Blockbuster. Quale produttore, dopotutto, sarebbe disposto a perdere il 25% dei profitti sui video prima ancora che il progetto venga lanciato sul mercato? Come ha spiegato il regista David Cronenberg al New Yorker, "il presupposto da cui si parte oggi sembra essere che tutti i film devono poter essere visti anche dai ragazzi... La pressione esercitata su chiunque voglia realizzare un film per adulti è fortissima".5 Molte riviste, incluse Cosmopolitan e Vibe, hanno iniziato a presentare i nuovi numeri ai centri commerciali e ai supermercati prima di distribuirli. Perché rischiare di perdere profitti se poi il nuovo numero viene giudicato troppo scabroso? "Se non gli presenti le copie in anticipo non fanno altro che toglierle definitivamente dagli scaffali", spiega Dana Sacher, direttore del settore distribuzione di Vibe. "In questo modo, invece, può accadere che non prendano un numero, ma potrebbero accettare il successivo."6 Le band, che fanno uscire un album ogni paio d'anni, non certo ogni mese, non hanno il privilegio di poter avvisare Wal-Mart riguardo a una possibile copertina problematica e sperare quindi in una sorte migliore per il disco successivo. Come i produttori cinematografici, le case discografiche adottano una strategia di tipo preventivo, registrando due versioni dello stesso album, di cui una, appositamente censurata e spesso priva di intere canzoni, destinata appunto ai grandi centri commerciali. Ma mentre questo tipo di strategia può funzionare per gli artisti di maggiore successo come i Prodigy e i Nirvana, premiati con un gran numero di dischi di platino, non è certo accessibile ai gruppi di minore prestigio, che spesso non possono incidere le canzoni come vorrebbero e sono costretti a lanciare versioni ripulite dei propri pezzi al solo scopo di prevenire possibili obiezioni da parte di aziende ossessionate dai valori familiari. La generale condiscendenza che circonda la propensione alla censura da parte di Wal-Mart e Blockbuster dipende dal fatto che molte persone sono portate a pensare che le decisioni aziendali non siano di natura ideologica. Le aziende prendono decisioni inerenti ai loro affari, ci ripetiamo in continuazione, anche quando gli effetti di tali decisioni sono chiaramente politici. Ma le conseguenze delle decisioni che queste catene di vendita al dettaglio esercitano sul mercato non possono non sollevare una serie di domande sulle conseguenze che ciò può avere per le libertà civili e la vita pubblica. Come spiega Bob Merlis, portavoce di Warner Brothers Records, queste decisioni private possono avere in realtà effetti decisamente pubblici. "Se la gente non può comprare i dischi noi non possiamo venderli", dichiara Merlis. "E ci sono posti in cui questo merchandising di massa è l'unica scelta possibile."7 Così come ha sfruttato le sue enormi dimensioni per ottenere prezzi all'ingrosso più bassi, Wal-Mart si avvale della sua influenza per modificare la produzione artistica dei suoi "fornitori" (case discografiche, case editrici, redazioni di giornali). Censura in sinergia In quanto conseguenza diretta della concentrazione del commercio al dettaglio, le situazioni presentate finora sono in realtà solo la forma più goffa dell'attività di censura condotta dalle grandi aziende. Più interessante è osservare che l'ondata di fusioni all'interno dell'industria della cultura sta generando essa stessa i propri ostacoli alla libera espressione, una sorta di censura in sinergia. Uno dei principali motivi per cui i vari produttori non si oppongono al puritanesimo delle aziende è che quelle stesse aziende, insieme alle case di produzione e di distribuzione, sono spesso di proprietà, in tutto o in parte, delle medesime compagnie. L'esempio più clamoroso di questo tipo di conflitto di interessi è il rapporto che lega la Paramount Films e Blockbuster. Difficilmente la Paramount andrà mai alla carica contro la politica conservatrice di Blockbuster, perché se questa è la strategia più efficace in termini di costi per attirare intere famiglie nei videonoleggi, chi è la Paramount per portar i soldi direttamente dalle tasche del comune proprietario Viacom? Una situazione simile si è creata anche dopo l'acquisto nel 1993 della Miramax, ex casa cinematografica indipendente, da parte della Disney. Se da un lato la Miramax dispone oggi di ingenti risorse che le consentono di investire in rischiose pellicole straniere quali La vita è bella di Roberto Benigni, dall'altro, quando deve decidere se diffondere o meno un'opera politicamente controversa e con scene di sesso come Kids di Larry Clarke, non può fare a meno di valutare l'impatto della sua scelta sulla reputazione di Disney e ABC, tradizionalmente rivolte alle famiglie, senza contare le innumerevoli sottomissioni ai vari gruppi di pressione che ciò potrebbe comportare. Questi potenziali conflitti diventano ancora più sgradevoli nel momento in cui i gruppi di media coinvolti non si occupano solo di intrattenimento, ma anche di notiziari e cronaca. Quando i quotidiani, le riviste, i libri e le reti televisive rappresentano solo uno dei rami di un conglomerato più vasto, incline a una "comunicazione totalmente aperta" (per citare Sumner Redstone), ci sono tutte le premesse perché gli innumerevoli interessi finanziari del conglomerato stesso influiscano sul tipo di giornalismo che viene prodotto. La storia degli editori di giornali che si immischiano nel lavoro di redazione per favorire i propri interessi economici è vecchia quanto quella dei proprietari dei quotidiani di piccole città che usano l'Herald o il Gazette locale per far eleggere sindaco qualche loro amico. Ma quando l'editore è un conglomerato, le sue mani sono in pasta in più campi contemporaneamente. Come i conglomerati-multinazionali hanno creato un proprio mondo che promuove se stesso, allo stesso modo creano nuove e infinite possibilità di conflitto di interessi e di censura. Le possibili pressioni vanno dallo spingere l'area riviste del conglomerato a pubblicare una recensione favorevole a un certo film o a una certa sit-com prodotti dall'area cinematografica-televisiva, a costringere un redattore a non pubblicare un articolo che potrebbe danneggiare una qualche fusione in corso, a chiedere ai quotidiani di "trattare con i guanti" gli enti giudiziari o le autorità che conferiscono licenze televisive o giudicano vertenze anti-trust. Il risultato è che anche i redattori e i produttori più intransigenti, pronti a resistere a qualsiasi tentativo esterno di censura da parte sia di lobby politiche, sia di direttori Wal-Mart che dei loro stessi inserzionisti, fanno sempre più fatica a non cedere a queste pressioni intracorporative. Il caso in assoluto più pubblicizzato di censura sinergica risale al settembre 1998, quando ABC News bocciò un servizio che riguardava la Disney realizzato dalla pluri-premiata coppia Brian Ross (corrispondente) e Rhonda Schwartz (produttore). Il servizio doveva essere inizialmente un'indagine su vasta scala riguardo a una serie di illazioni secondo cui i parchi di divertimento e d'intrattenimento a tema trascuravano la sicurezza, assumendo incautamente dipendenti con precedenti per crimini sessuali, inclusi i pedofili. Dato che la Disney era solo uno dei numerosi proprietari di parchi sottoposti a indagine, Ross e Schwartz ottennero il benestare per iniziare il servizio. Dopotutto, non era la prima volta che la coppia chiamava in causa la propria azienda madre. Nel marzo 1998, il programma d'attualità 20/20 di ABC aveva trasmesso un loro reportage sul diffuso sfruttamento dei lavoratori nel territorio statunitense di Saipan. Anche se le accuse erano rivolte principalmente contro Ralph Lauren e the Gap, il servizio menzionava en passant anche la Disney tra le varie aziende americane che appaltavano la produzione agli stabilimenti incriminati. Ma la cronaca ha una vita indipendente, e man mano che Ross e Schwartz procedevano nelle indagini sui parchi tematici, scoprirono che la Disney non aveva affatto un ruolo marginale bensì era la protagonista assoluta della vicenda. Quando i due promo di ciò che era diventato un'aperta denuncia di scandalo sessuale a Disney World furono presentati a David Westin, presidente di ABC News, quest'ultimo li bocciò senza mezzi termini. "Non funzionavano", ha detto Eileen Murphy portavoce della rete.8 Anche se la Disney respinge tutte le accuse di negligenza nei servizi di sicurezza, formulate per la prima volta nel libro Disney: The Mouse Betrayed, e anche se Michael Eisner, amministratore delegato dell'azienda, ha dichiarato apertamente "Preferirei che ABC non si occupasse della Disney"9, la ABC continua a negare che la storia sia stata insabbiata a causa di pressioni da parte dell'azienda madre. Murphy ha comunque ammesso che "di norma, non vengono svolte ricerche che riguardano solo la Disney, per diverse ragioni, tra cui il fatto che, qualunque sia il risultato, positivo o negativo, verrebbe comunque accolto con un certo sospetto."10 Le critiche più aperte all'intera questione sono state mosse da Brill's Content, la rivista che vigila sui media fondata nel 1998 da Steven Brill. Questa pubblicazione ha redarguito aspramente i direttori e i giornalisti di ABC per aver accettato in silenzio la censura e li ha accusati di darsi per vinti per una sorta di "Topolino-fobia". Nel suo precedente ruolo di fondatore della rete via cavo Court TV e della rivista American Lawyer, Steven Brill aveva già avuto a che fare con la censura sinergica. Egli sostiene che, dopo aver venduto il suo piccolo regno mediatico alla Time Warner nel 1997, aveva ricevuto pressioni su numerosi articoli che toccavano in qualche modo i lunghi tentacoli dell'impero Time Warner/Turner. In un memorandum pubblicato su Vanity Fair, Brill racconta che i legali dell'azienda avevano cercato di eliminare un articolo di American Lawyer riguardante una causa avviata dalla Chiesa di Scientology contro la rivista Time (di proprietà della Time Warner) e avevano chiesto alla rete Court TV di non parlare del processo in cui era coinvolta la Warner Music. Egli sostiene poi che Richard Bressler, direttore finanziario della Time Warner, gli avrebbe chiesto di insabbiare un servizio su William Baer, direttore della Sezione Concorrenza della Commissione Federale per il Commercio, ironia della sorte, proprio l'ente che doveva valutare la fusione Time Warner/Turner per verificare che non vi fossero violazioni della legge anti-trust.11 Nonostante queste presunte ingerenze, tutti i servizi in questione sono stati alla fine trasmessi o stampati, ma l'esperienza di Brill getta comunque molte ombre sul futuro della libertà di stampa nel marasma di queste continue fusioni tra giganti. I direttori e i produttori più arditi e combattivi continuano ad affermare il diritto dei giornalisti di svolgere il proprio lavoro, ma, nell'attuale situazione, per ognuno di questi "eroi" ci sarà sicuramente più di una controparte che preferisce muoversi con cautela per timore di perdere il lavoro. Non deve quindi stupire il fatto che molti vedano guai anche quando non ce ne sono, cercando di indovinare e assecondare i desideri dei top manager in modi più creativi e paranoici di quanto questi ultimi avrebbero mai potuto immaginare. E' questa la vera insidia dell'autocensura: il fatto che metta a tacere più efficacemente di quanto un'armata di prepotenti magnati dei media avrebbe mai sperato di. Brividi cinesi Negli ultimi anni si è affermata una tendenza secondo cui i giornalisti, i produttori e i direttori di giornale non solo procedono con cautela quando hanno a che fare con enti giudiziari e autorità regolatorie (per non parlare dei parchi di divertimento), ma, nel caso della Cina, si può parlare di un intero paese divenuto ormai una specie di campo minato. Un'ondata di gelo cinese ha infatti coinvolto i media occidentali e l'industria dell'intrattenimento da quando Deng Xiaoping ha allentato per la prima volta il monopolio del Partito Comunista sui notiziari e ha iniziato ad aprire lentamente le frontiere del Paese ad alcuni media e forme di intrattenimento stranieri approvati dalla censura. L'industria mondiale della cultura si trova quindi oggi a fronteggiare la possibilità che sia l'Occidente a dover giocare secondo le regole della Cina, sia all'interno che all'esterno del Paese. Queste regole sono state riassunte in modo chiaro in un articolo del 1992 apparso su The South China Morning Post: "Qualora non violino la legge o non contravvengano alla linea del Partito, i giornalisti e gli addetti alla cultura potranno agire in piena libertà senza alcuna interferenza da parte di commissari e censori".12 E di fronte alla prospettiva di 100 milioni di cinesi abbonati alla TV via cavo nell'anno 2000, numerosi magnati della cultura hanno già iniziato a utilizzare la loro libertà di muoversi per stringere accordi con il governo cinese. Un primo caso del genere ha riguardato la ben nota decisione di Rupert Murdoch di eliminare il notiziario World Service della BBC dalla versione asiatica di Star TV. Le autorità cinesi si erano opposte a un programma della BBC su Mao Tse-tung, fornendo indicazioni ben precise sul tipo di cronaca che il blindato mondo cinese avrebbe considerato vantaggioso e ben accetto. In tempi più recenti, HarperCollins Publishers (la casa editrice che ha pubblicato questo libro nel Regno Unito), anch'essa di proprietà della Murdoch's News Corp., ha deciso di non pubblicare il libro East and West: China, Power, and the Future of Asia, scritto da Chris Patten, l'ultimo governatore britannico di Hong Kong. Il problema era che le opinioni espresse da Patten, che chiedeva una maggiore democrazia a Hong Kong e criticava gli abusi contro i diritti umani in Cina, avrebbero potuto irritare il governo cinese da cui dipendono le attività dei satelliti di Murdoch. Nella bufera di controversie che ne seguì, uscirono dal cilindro diverse accuse di censura nell'interesse della sinergia globale, una delle quali lanciata da Jonathan Mirsky, ex direttore per l'Asia orientale del Times di Londra, appartenente a Murdoch. Egli dichiarò che il giornale aveva "semplicemente deciso, a causa degli interessi di Murdoch, di non occuparsi con serietà della Cina".13 La paura di ritorsioni da parte della Cina non è affatto immotivata. Famoso perché punisce i media che non rispettano la linea del governo e premia quelli che invece la seguono, il governo cinese ha vietato nell'ottobre 1993 la vendita e il possesso di antenne satellitari private, che consentivano di ricevere più di dieci canali stranieri tra cui CNN, BBC e MTV. Liu Xilian, vice-ministro del settore radiotelevisivo e cinematografico, ha dichiarato semplicemente: "Alcuni programmi via satellite sono adatti al pubblico normale mentre altri non lo sono".14 Il governo cinese tornò all'attacco nel dicembre 1996, dopo aver appreso dell'intenzione della Disney di realizzare Kundun, film di Martin Scorsese sul Tibet e il Dalai Lama. "Ci opponiamo fermamente alla realizzazione di questo film, che mira a glorificare il Dalai Lama costituendo quindi un'ingerenza negli affari interni della Cina", ha dichiarato Kong Min, funzionario del Ministero radiotelevisivo e cinematografico.15 Poiché la casa cinematografica continuò ugualmente le riprese, il governo di Pechino vietò la trasmissione nel Paese di tutti i film della Disney, bando che è rimasto in vigore per ben due anni. Dato che la Cina consente l'accesso a una decina di film stranieri l'anno e controlla direttamente la loro distribuzione, il caso Kundun ha fatto rabbrividire l'intera industria cinematografica, che aveva in cantiere molti altri progetti legati a questo paese tra cui L'angolo rosso della MGM e Sette anni in Tibet della Sony. Agli studi cinematografici va certo riconosciuto il merito di non aver interrotto la produzione di questi film, senza contare che molti esponenti del settore si sono stretti attorno a Scorsese e Kundun. Tuttavia, sia la MGM che la Sony hanno rilasciato una serie di dichiarazioni ufficiali mirate a depoliticizzare le rispettive pellicole sulla Cina, anche quando ciò significava contraddire apertamente gli attori principali e i registi. Ad esempio, la MGM ha continuato le riprese di Red Corner, film sulla corruzione della giustizia penale cinese, ma mentre il protagonista Richard Gere ha dichiarato che la pellicola è solo un modo per "trattare la questione del Tibet da una diversa angolazione",16 Gerry Rich, presidente del marketing a livello mondiale della MGM ha parlato in modo radicalmente diverso: "Non ci stiamo occupando di temi politici. Vogliamo solo vendere intrattenimento". Sette anni in Tibet è stato presentato in modo molto simile dalla Sony: "Non si vuole affatto dare l'idea che si tratti di un film che si occupa di una causa politica", ha dichiarato un dirigente della casa cinematografica.17 Nel frattempo la Disney era riuscita a far ritirare il divieto di trasmettere i suoi film imposto dal governo cinese grazie a Mulan, cartone animato pieno di buoni sentimenti basato su una leggenda di 1300 anni fa sulla dinastia Sui. The South China Morning Post ha descritto questo ritratto dell'eroismo e del patriottismo cinesi come un "ramoscello d'ulivo" e come il "film più favorevole alla Cina realizzato da Hollywood negli ultimi anni". L'obiettivo era stato raggiunto: Mulan era stato un fallimento ai botteghini ma aveva aperto la strada alle trattative tra la Disney e Pechino per la creazione di un parco divertimenti Disney da 2 miliardi di dollari a Hong Kong. I mezzi di comunicazione si trasformeranno da un prodotto di massa a un banchetto senza fine in cui si potrà trovare una gran varietà di specialità della casa... Sta per emergere una nuova era di individualismo che porterà a un'eruzione culturale senza precedenti nella storia dell'uomo. - George Gilder, Life After Television, 1990 La grande bramosia dell'Occidente di entrare nel mercato cinese dell'intrattenimento è diventata particolarmente intensa negli ultimi anni, nonostante il peggioramento delle relazioni tra Usa e governo cinese a causa di questioni quali l'accesso alle telecomunicazioni e ai sistemi di difesa del Paese, nuovi casi di spionaggio e, più grave in assoluto, il bombardamento accidentale dell'ambasciata cinese a Belgrado durante la guerra in Kosovo. Uno dei motivi della crescita di interesse per questo Paese è che i potenziali profitti, in passato solo ipotizzati, sono diventati realtà nel 1998, quando il film Titanic di James Cameron ha battuto ogni record in termini di distribuzione all'estero, incassando 40 milioni di dollari ai botteghini cinesi, nonostante la recessione economica in cui versava il Paese. La storia dei "brividi cinesi" ci fa capire soprattutto quali sono le priorità e i poteri delle odierne multinazionali. Gli interessi economici personali negli affari non sono certo una novità, né di per sé sono deleteri. Gli aspetti realmente nuovi sono invece la portata e le dimensioni degli interessi economici multinazionali, e le potenziali conseguenze globali a livello internazionale e locale. Queste conseguenze non graveranno certo sugli scontri alla pari tra soggetti quali Rupert Murdoch, Michael Eisner, Martin Scorsese e Chris Patten, tutti in possesso delle risorse e dell'influenza necessarie per migliorare la propria posizione indipendentemente dai piccoli scacchi subiti. La Disney e la News Corp. stanno conquistando rapidamente la Cina, il Tibet è ancora una delle cause più "alla moda" tra le star del cinema e della musica e il libro di Patten, dopo aver trovato all'istante un altro editore, ha certamente venduto molte più copie grazie al dibattito che ha suscitato. Gli effetti più duraturi riguarderanno invece, ancora una volta, tutte le forme di autocensura che i conglomerati mediatici sono oggi in grado di instillare nelle fila delle organizzioni loro subordinate. Se i reporter dei notiziari, i direttori di giornale e i produttori devono considerare i programmi espansionistici dei propri magnati quando si occupano della cronaca estera, perché ci si dovrebbe limitare alla Cina? Un servizio sul genocidio di Timor Est perpetrato dal governo indonesiano non potrebbe forse creare problemi a ogni multinazionale in affari, o in procinto di entrare in affari, con la popolosa Indonesia? E cosa succede se una multinazionale ha degli accordi in corso con Nigeria, Colombia o Sudan? Siamo molto lontani dai toni retorici che hanno accompagnato la caduta del muro di Berlino, quando i magnati dei media proclamavano al mondo intero che i loro prodotti culturali avrebbero portato la fiaccola della libertà nei regimi dittatoriali. Non solo questa missione pare essere stata subito abbandonata a vantaggio di interessi economici personali, ma sembra quasi che l'unica fiaccola tenuta ben in alto da chi è più determinato a diventare "globale" sia quella dell'autoritarismo. I soprusi del copyright Dopo che gli attacchi aerei della Nato del 1999 avevano prodotto il fenomeno dei "raduni rock" serbi, in cui adolescenti con cappellini dei Chicago Bulls bruciavano la bandiera americana in segno di sfida, pochi sarebbero così ingenui da continuare a sostenere il vecchio ritornello secondo cui MTV e McDonald's starebbero diffondendo la pace e la democrazia nel mondo. Ciò che invece si era affermato in quei momenti in cui la cultura pop colmava il divario della guerra è il fatto che, anche quando non esiste nessun altro elemento culturale, politico o linguistico in comune, i media occidentali hanno, se non altro, mantenuto la promessa di introdurre il primo vero lessico globale fatto di immagini, musica e icone. Se non si è d'accordo su nient'altro, di fatto, si sa però che Michael Jordan è il miglior giocatore di basket mai esistito. Questa può forse sembrare una misera conquista se paragonata alle grandiose promesse di "villaggio globale" fatte dopo il crollo del Comunismo, ma è comunque un risultato abbastanza importante da aver rivoluzionato sia la produzione artistica che la prassi politica. I riferimenti verbali o visivi a sit-com, personaggi cinematografici, slogan pubblicitari e logo aziendali sono diventati gli strumenti più efficaci in nostro possesso per comunicare con culture diverse, immediati come un semplice "clic". La portata e la profondità di questa forma di branding sociale sono balzate al centro dell'attenzione nel marzo 1999, quando scoppiò uno scandalo su un popolare libro di testo usato nelle scuole pubbliche americane. Il testo di matematica in questione era pieno di riferimenti e fotografie di prodotti di marca molto rinomati: scarpe Nike, McDonald's, Gatorade. Ad esempio, il testo di un problema insegnava agli studenti a calcolare i diametri misurando un biscotto Oreo. Com'era prevedibile i genitori erano furiosi per questo primo, storico tentativo di commercializzare l'istruzione attraverso un libro che conteneva, almeno all'apparenza, messaggi pubblicitari. McGraw-Hill, casa editrice del testo, sosteneva che tutte le critiche erano sbagliate. "Stiamo cercando di inserire la materia in un contesto più familiare per i ragazzi, in modo che possano dire - 'Però, la matematica esiste!'" - ha spiegato Patricia S. Wilson, una delle autrici del libro, precisando che i riferimenti a marchi noti non erano affatto slogan pubblicitari, ma un tentativo di parlare agli studenti nel loro linguaggio citando ciò che conoscono meglio, ovvero i marchi.18 Nessuno è più consapevole di quanto il linguaggio e i marchi siano ormai strettamente legati fra loro degli stessi brand manager. Le teorie di marketing estremo incoraggiano le aziende non a pensare al proprio marchio come a una serie di caratteristiche del prodotto, ma a considerare il ruolo psicosociale che svolge nella cultura popolare e nella vita dei consumatori. L'antropologo culturale Grant McCracken insegna alle aziende che per riuscire a capire questo ruolo devono lasciare che il proprio marchio si esprima nella società. Secondo McCracken, prodotti come Kraft Dinner acquisiscono una propria vita nel momento in cui lasciano il negozio, diventando icone della cultura popolare, occasioni di unione familiare ed espressioni creative dell'individualità.19 Il capitale più recente di questa particolare teoria del branding risale a Susan Fournier, docente di Harvard che, con il suo saggio The Consumer and The Brand: An Understanding within the Framework of Personal Relationships, incoraggia il mondo del marketing a utilizzare il modello dei rapporti umani per concettualizzare la posizione del marchio all'interno della società: si tratta forse di una donna costretta a un matrimonio combinato? Di un migliore amico o di un amante? I consumatori tradiscono il proprio marchio o gli sono fedeli? E il loro rapporto è una "amicizia casuale" o una "dipendenza padrone/schiavo"? Come scrive la Fournier, "questo tipo di connessione è determinata non tanto dall'immagine che il marchio 'contiene' all'interno della cultura, ma dai profondi significati psicologici e socioculturali che il consumatore attribuisce al marchio all'interno del processo di creazione del suo significato."20 Perciò eccoci qui, nel bene o nel male, impegnati in un rapporto significativo con il nostro dentifricio e in una reciproca dipendenza con il nostro balsamo. Abbiamo al nostro attivo quasi due secoli di storia del marchio che si stanno coalizzando per creare una specie di codice Morse globale. Ma c'è un tranello: anche se questo codice viene impiantato nei nostri cervelli non ci è in realtà consentito di usarlo liberamente. A tutela del marchio da ogni possibile indebolimento, gli artisti e gli attivisti che cercano di stabilire con esso un "rapporto alla pari" vengono regolarmente trascinati in tribunale per violazione di leggi sul marchio depositato, sul copyright, sulla diffamazione o "denigrazione del marchio"; norme, queste, facilmente soggette ad abuso, che mantengono il brand sottovuoto, permettendo a esso di "marchiarci", proibendo a noi di intaccarlo in qualsiasi modo. Questa situazione ci riporta di nuovo alla sinergia. La definizione che la legge statunitense dà di marchio registrato è la seguente: "Qualsiasi parola, nome, simbolo, emblema, o combinazione di questi, usata... per identificare e distinguere determinati beni da quelli prodotti o venduti da altri soggetti". Molti presunti trasgressori delle leggi sul copyright non cercano affatto di vendere prodotti simili o di farli passare per l'originale. Di fronte alla crescente espansione del branding, viene considerato un possibile rivale chiunque faccia qualcosa che è anche lontanamente legato al marchio, perché qualsiasi iniziativa di questo tipo potrebbe produrre delle conseguenze sul futuro sinergico delle aziende. Ecco perché, quando cerchiamo di comunicare con il linguaggio dei famosi, corriamo il serio rischio di essere citati in giudizio. Negli Usa, le leggi sul copyright e sui marchi depositati, rafforzate da Ronald Reagan nel 1983 con una serie di normative che ammorbidivano di converso le leggi anti-trust, vengono chiamate in causa per motivi che hanno più a che fare con il controllo del marchio che non con questioni concorrenziali. Non vi è dubbio che vi siano casi in cui l'applicazione di queste leggi è indispensabile, soprattutto se gli artisti vogliono sopravvivere di fronte alla sempre maggiore facilità di pirateria digitale ed elettronica. Gli artisti devono essere tutelati dal saccheggio deliberato del loro lavoro da parte dei concorrenti e dall'utilizzo non autorizzato delle loro opere per profitti illeciti. Io stessa conosco alcuni estremisti anti-copyright che indossano magliette con slogan del tipo "Il copyright è un furto" e "L'informazione vuole essere libera", posizioni queste che ritengo siano più provocatorie che realmente sentite. In ogni caso, tali opinioni evidenziano, anche se solo in modo retorico, il clima di privatizzazione culturale e linguistica che si sta sempre più affermando attraverso i continui attacchi perpetrati dal copyright e dai marchi depositati. I soprusi del copyright e dei marchi depositati sono ormai una realtà consolidata e in continuo aumento e, anche se gli effetti sono talmente vasti che è piuttosto difficile poterli documentare nel dettaglio, ecco alcuni casi significativi. L'azienda dolciaria Dairy Queen non decorerà le torte di compleanno surgelate con l'immagine di Bart Simpson per paura di un'azione legale da parte della Fox; nel 1991 la Disney ha costretto un gruppo di genitori neozelandesi di una remota cittadina a cancellare la loro riproduzione amatoriale di Pluto e Paperino dal murales di un campo da gioco; e Barney dei Flintstones ha rovinato le feste di compleanno di molti bambini americani sostenendo che tutti i genitori colti in flagrante con un costume da dinosauro color porpora stavano violando il relativo marchio depositato, e Lyons Group, proprietario del personaggio Barney, "ha inviato 1000 lettere ai negozianti" che affittavano o vendevano i costumi incriminati. "Il problema non è il costume da dinosauro, è il dinosauro color porpora a essere illegale, indipendentemente dalla tonalità di porpora", ha dichiarato Susan Elsner Furman, portavoce di Lyons Group.21 McDonald's nel frattempo continua a tormentare i piccoli negozianti e ristoratori di origini scozzesi per il prefisso "Mc" che compare nel cognome, dovuto alla nazionalità e non certo a questioni concorrenziali. L'azienda ha fatto causa al chiosco di salsicce McAllan's in Danimarca, alla paninoteca McMunchies di ambientazione scozzese nel Buckinghamshire, ha perseguitato il punto vendita McCoffee di Elizabeth McCaughey nella Baia di San Francisco e ha condotto una battaglia di ventisei anni contro un uomo chiamato Ronald McDonald il cui McDonalds' Family Restaurant, in una minuscola cittadina dell'Illinois, esisteva sin dal 1956. Questi esempi possono forse sembrare banali, ma le medesime leggi aggressive sulla proprietà vengono usate contro gli artisti e gli artefici di prodotti culturali che cercano di esprimere le proprie idee sul "mondo firmato" in cui viviamo. I musicisti vengono citati in giudizio anche se stanno solo tentando di mettere in musica un sogno collettivo soggetto a brevetto. Questo è quanto è accaduto alla band Negativeland di San Francisco e ai suoi "collage musicali" quando ha scelto il nome U2 per uno dei suoi album e vi ha inserito dei frammenti del programma radiofonico American Top 40 di Casey Kasem. E' la sorte toccata anche a John Oswald, musicista d'avanguardia di Toronto, che ha usato una tecnica da lui inventata e chiamata "plunderphonics" per realizzare un remix della canzone Bad di Michael Jackson contenuta in un album del 1989 che distribuì gratuitamente. I Negativeland hanno perso la causa contro Island Records, casa discografica degli U2, e la CBS Records, che rappresenta Michael Jackson, ha citato in giudizio Oswald per violazione del copyright. Il risarcimento prevedeva, tra l'altro, che Oswald restituisse tutti i CD in modo che potessero essere distrutti. L'arte nasce e nascerà sempre da una reinterpretazione del nostro linguaggio e dei riferimenti culturali condivisi: quando però le esperienze comuni non sono più dirette ma mediate, e le principali forze politiche della nostra società non sono solo i politici ma le multinazionali, si devono considerare nuove e importanti questioni che ancora una volta riguardano la definizione ormai obsoleta di "libertà d'espressione" in una cultura dominata dai marchi. In un contesto del genere, dire agli artisti che realizzano video che non possono usare i vecchi spot delle automobili o ai musicisti che non possono prendere frammenti di canzoni o distorcerle equivale a mettere al bando la chitarra o a vietare a un pittore di usare il colore rosso. Il messaggio di fondo è che la cultura è qualcosa che ti capita. La puoi acquistare al Virgin Megastore o da Toys 'R' Us e noleggiarla da Blockbuster. Non è qualcosa a cui puoi prender parte o a cui hai il diritto di rispondere. Le regole di questo dialogo a senso unico sono rimaste indiscusse per molto tempo, soprattutto per il fatto che, fino agli anni Ottanta, i casi di violazione di copyright e marchi registrati riguardavano perlopiù aziende rivali che si facevano causa per la reciproca invasione delle rispettive quote di mercato. Artisti come i REM, i Clash, i Dire Straits e k.d. lang erano liberi di parlare nelle loro canzoni di prodotti registrati come Orange Crush, Cadillac, MTV e la rivista Chatelaine. Inoltre, il consumatore medio non disponeva all'epoca dei mezzi necessari per tagliare e incollare frammenti della cultura di massa per dar vita a un proprio prodotto nuovo, una rivista, un video super-8 o una registrazione elettronica. Solo quando apparvero sul mercato, come beni di consumo a basso costo, scanner, fotocopiatrici economiche, attrezzature per l'editing digitale e applicazioni come Photoshop, le leggi sul copyright e sui marchi registrati sono diventate un serio problema per chi produceva cultura in modo indipendente creando pubblicazioni, siti Web e incisioni. "Penso che la cultura si sia sempre ripetuta in modo ciclico... La tecnologia consente di ottenere, manipolare e registrare informazioni provenienti da luoghi e tempi lontani", dice Steev Hise, pirata audio. "Le persone faranno ciò che saranno in grado di fare."22 Fare tutto ciò che si può è il principio ispiratore della tecnica "plunderphonics" di John Oswald. Come egli stesso spiega, questa tecnica è nata dalla possibilità di accedere a tecnologie che gli consentivano di ascoltare dischi a velocità diverse. "La mia era una sorta di manipolazione dell'ascolto eseguita in un modo alquanto complesso. A mano a mano che questo mio metodo di ascolto diventava più sofisticato ho iniziato a pensare a come potevo preservare il mio lavoro e farlo sentire agli altri."23 Ciò che dà più fastidio a Oswald e ad altri come lui non è tanto il fatto che il loro lavoro sia illegale, ma che venga giudicato illegale solo quando viene svolto da determinati artisti. Quando Beck, cantante appartenente a una delle maggiori case discografiche, realizza un album con centinaia di copiature, la Warner Music paga semplicemente i diritti per ogni singola tessera di questo collage musicale ed esalta l'intero lavoro perché riesce a cogliere i suoni e i punti di riferimento della nostra epoca. Ma quando gli artisti indipendenti fanno la stessa cosa, cercando di fare arte con un copia-incolla di frammenti della loro vita "di marca", sfruttando la cultura fai-da-te tanto propagandata nell'era dell'informazione, il loro lavoro viene criminalizzato e definito furto, non espressione artistica. Questo è il punto della questione sollevata dai musicisti del CD underground Deconstructing Beck del 1998, che consiste essenzialmente in una ricontestualizzazione elettronica dei suoni già copiati di Beck. La loro premessa di fondo è molto semplice: se Beck ha potuto farlo, perché noi non possiamo? Con perfetto tempismo, la casa discografica di Beck iniziò a inviare minacciose lettere legali che si placarono all'improvviso quando i musicisti in questione dichiararono senza mezzi termini che non vedevano l'ora di scatenare una guerra sui media. Se non altro avevano raggiunto il loro scopo: l'unico mezzo per far rispettare copyright e marchi depositati è scontrarsi per stabilire chi debba fare arte con le nuove tecnologie. Certo è che se la tua squadra non fa parte di una società abbastanza grande da controllare gran parte del campo di gioco e se non hai alle spalle un team di avvocati agguerriti, non riuscirai neppure a iniziare a giocare. La causa per violazione del copyright intentata dalla Mattel contro il gruppo pop Aqua e la loro casa discografica MCA è un perfetto esempio di questo scontro fra titani. La Mattel sosteneva che la canzone Barbie Girl della band danese attribuiva una valenza sessuale alla florida bambola bionda con frasi del tipo "Kiss me here, touch me there, hanky panky - Baciami qui, toccami là, adulterio". Il processo si tenne nel settembre 1997 e i capi d'accusa contro gli Aqua erano: violazione del marchio depositato e concorrenza sleale. L'azienda di giocattoli chiedeva un risarcimento danni e il ritiro dell'album dai negozi, nonché la sua distruzione. Gli Aqua hanno vinto la causa non perché le loro argomentazioni fossero più solide di quelle dei Negativeland o di John Oswald (forse erano perfino più vacillanti), ma perché, a differenza di questi musicisti indipendenti, potevano contare sulla squadra di avvocati della MCA, decisa a lottare con le unghie e con i denti per far sì che la canzone rimanesse ben salda in cima alle classifiche e sugli scaffali dei negozi. Era una battaglia tra marchi, come quella tra Jordan e la Nike. Anche se la musica è solo una goccia nel mare, il caso degli Aqua merita di essere considerato in quanto dimostrazione esemplare dei soprusi del copyright e del fatto che i musicisti devono stare attenti non solo alla copiatura di altri brani, ma anche a eventuali riferimenti a prodotti di marca. Ha poi messo in luce il seccante contrasto esistente fra la logica espansionistica del branding, ovvero il desiderio delle aziende di integrarsi totalmente a livello culturale, e la meschinità di fondo di queste crociate legali. Chi se non la Barbie è nel contempo prodotto e simbolo culturale? Dopotutto questa bambolina è il perfetto prototipo dell'invasore alieno, un imperialista della cultura in rosa che riesce a far dipingere intere città di color fucsia per celebrare "il mese di Barbie". E' la maestra Zen che negli ultimi quarant'anni ha cercato di essere tutto per le bambine del pianeta: dottoressa, oca giuliva, teen-ager, donna in carriera, ambasciatrice dell'Unicef... La Mattel non era tuttavia interessata a parlare della Barbie come icona culturale quando ha avviato la causa contro gli Aqua. "E' una questione commerciale che non riguarda affatto il diritto alla libertà di parola", ha dichiarato un portavoce dell'azienda a Billboard. "Questa è una società da 2 miliardi di dollari e non vogliamo essere presi in giro; situazioni come questa a lungo andare finiscono per intaccare il marchio."24 Senza dubbio la Barbie è un prodotto creato a fini di lucro. Marchi come Barbie, Aspirina, Kleenex, Coca-Cola e Hoover sono da sempre in bilico tra il desiderio di essere onnipresenti e il rifiuto di essere così strettamente associati a una specifica categoria di prodotti da vedere trasformato il marchio stesso in qualcosa di generico, che viene nominato anche per vendere prodotti di marca concorrenti. Ma mentre questa battaglia contro l'abuso di una marca appare sensata nel contesto della competizione reciproca, la questione appare ben diversa se valutata dalla prospettiva del branding di uno stile di vita: in quest'ottica, una delle maggiori priorità è sicuramente la rivalutazione del diritto del pubblico di reagire a queste immagini 'private'. La Mattel, ad esempio, ha realizzato grandi profitti incoraggiando ragazzine a costruire vite da sogno intorno alla loro bambola e tuttavia continua a pretendere che questo tipo di rapporto sia solo un monologo. L'azienda di giocattoli, che si vanta di avere "costantemente almeno 100 diverse cause in corso in tutto il mondo riguardanti la violazione del marchio depositato",25 si è resa più volte ridicola nelle aggressioni volte a difendere la sua formula magica. Tra le varie prodezze dei suoi avvocati, possiamo citare la soppressione di una rivista per ragazze chiamata Hey There, Barbie Girl! e il divieto di far mandare in onda il documentario di Todd Haynes Superstar: The Karen Carpenter Story, una ricostruzione della vita della popstar anoressica che usava come "attori" esclusivamente delle Barbie (una serie di pressioni legali giunsero anche dalla famiglia della Carpenter). Calza a pennello il fatto che Sren Rasted, membro degli Aqua, abbia dichiarato che l'idea della canzone Barbie Girl gli è venuta dopo aver visitato "in un museo d'arte, una mostra per bambini dedicata alla Barbie".26 Nel tentativo di proporre la bambola come prodotto culturale, la Mattel ha allestito negli ultimi anni mostre itineranti di Barbie d'epoca, che pretendono di raccontare la storia dell'America attraverso "la sua bambola preferita". Alcuni di questi eventi vengono organizzati direttamente dalla Mattel, mentre altri sono il frutto di una stretta collaborazione tra l'azienda e i collezionisti privati, rapporto questo che garantisce una sorta d'omertà sui capitoli più sgradevoli della storia di Barbie, tra cui la protesta delle femministe contro la bambola o il suo ruolo di testimonial per delle sigarette. Non vi è quindi dubbio che la Barbie, insieme a un gruppo ristretto di altri marchi classici, sia un'icona e un prodotto artistico oltre che un giocattolo per bambini. Il problema è che la Mattel, come la Coca-Cola, la Disney, la Levi's e gli altri marchi che hanno lanciato progetti simili, vuole essere considerata come prodotto di cultura popolare e mantenere nel contempo la proprietà totale e assoluta della sua eredità storica e culturale. Questo processo finisce per imbavagliare le critiche, e si serve di efficaci strumenti quali le leggi sul copyright e sui marchi depositati per mettere a tacere ogni forma di attenzione indesiderata. I direttori di Miller's, rivista per collezionisti di Barbie, ritengono che la Mattel li abbia citati in giudizio per violazione del copyright perché, a differenza della posizione totalmente acritica degli amatori che allestiscono le mostre itineranti, la loro pubblicazione aveva criticato i costi elevati della bambola e diffuso vecchie foto di Barbie in posa con le sigarette Virginia Slims. La Mattel non è certo la sola che utilizza questa strategia. Kmart, ad esempio, per far chiudere il sito Web Kmart Sucks (Kmart fa schifo) creato da un dipendente insoddisfatto, non si è servita di una causa per calunnia o diffamazione, che avrebbe costretto la catena a dimostrare che le illazioni del sito erano false, ma ha avviato una vertenza per l'utilizzo non autorizzato del suo marchio depositato K. Quando non possono valersi delle leggi sul copyright o sul marchio depositato per evitare utilizzi indesiderati del brand, molte società chiamano in causa le leggi sulla calunnia e sulla diffamazione per far sì che le loro cause non possano essere discusse in un contesto pubblico. Il processo "McLibel" in Gran Bretagna, nel quale la catena di fast food McDonald's ha citato due ambientalisti per diffamazione, rientra appunto in questa categoria (l'argomento verrà trattato in dettaglio nel Capitolo 16). Indipendentemente dalle diverse tattiche legali utilizzate, il messaggio estremamente contraddittorio inviato dai produttori di queste icone è sempre lo stesso: vogliamo che i nostri marchi siano l'aria che respirate, ma guai a voi se osate espirare. Quante più aziende come la Mattel e McDonald's riescono a creare mondi firmati che si autodelimitano, tanto più soffocante in termini culturali potrà diventare questo tipo di esigenza. Le leggi sul copyright e sui marchi depositati sarebbero assolutamente legittime se si trattasse di semplici marche di prodotti, ma un'affermazione di questo tipo equivale oggi a sostenere che Wal-Mart è solo un negozio. I marchi in questione rappresentano invece società con bilanci superiori a quelli di molti Stati, e logo che sono diventati simboli straordinari in tutto il mondo, che cercano con accanimento di usurpare il ruolo dell'arte e dei media. Le fondamenta della libertà di parola e dell'intera società democratica verranno messe in seria discussione se non saremo in grado di rispondere a entità così potenti a livello culturale e politico. Privatizzare le piazze cittadine Esiste un evidente parallelo tra la privatizzazione del linguaggio e del dialogo culturale realizzata attraverso i soprusi del copyright e dei marchi depositati e la privatizzazione dello spazio pubblico dovuta alla proliferazione di ipermercati, centri commerciali con parchi tematici, e città "griffate" come Celebration in Florida. Nello stesso modo in cui le parole e le immagini di proprietà privata vengono usate di fatto come un sistema stenografico internazionale, così anche le enclavi private del marchio stanno diventando di fatto piazze cittadine, con inevitabili conseguenze per le libertà civili. La miscela di shopping e intrattenimento offerta dagli ipermercati e dai centri commerciali con parchi a tema ha generato una vasta zona d'ombra tra spazio privato e spazio pubblico. I politici, la polizia, gli assistenti sociali e perfino i leader religiosi sono tutti disposti a riconoscere che i centri commerciali sono diventati una moderna piazza cittadina. Ma mentre le vecchie piazze erano e rimangono luoghi d'incontro, di discussione, di protesta e raduni politici, l'unico tipo di linguaggio qui consentito è quello del marketing e del gergo consumistico. I manifestanti pacifici vengono regolarmente cacciati dagli addetti alla sicurezza perché disturbano lo shopping, e perfino i picchetti sono considerati illegali all'interno di queste recinzioni. Il concetto di piazza cittadina è stato di recente assimilato dai centri commerciali, molti dei quali sostengono oggi di offrire anch'essi uno spazio pubblico. "In sostanza, vogliamo che le persone concepiscano l'ipermercato come un luogo d'incontro, dove possono trovare la loro 'dose' di cultura popolare e bazzicare qui e là per un po' di tempo. Non è solo un luogo dove fare acquisti, ma un posto dove 'stare'", ha dichiarato Christos Garkinos, vicepresidente del marketing per Virgin Entertainment Group, in occasione dell'apertura del Virgin Megastore di Vancouver da 3700 metri quadri27. L'edificio in cui la Virgin ha allestito il proprio negozio ospitava in precedenza la biblioteca pubblica, una perfetta metafora del modo in cui l'espansione di questi centri sta modificando le nostre modalità d'incontro, non solo come acquirenti, ma anche come cittadini. Barnes & Noble descrive i suoi negozi come "centri per manifestazioni e incontri culturali" e alcuni di questi centri svolgono molto bene questo ruolo, soprattutto negli Usa, ospitando ogni genere di evento dai concerti pop alle letture di poesia.28 Le grandi librerie, con le loro sedie eleganti, i finti caminetti, i circoli letterari e i bar interni hanno iniziato lentamente a rimpiazzare le biblioteche e le sale di lettura delle università come luoghi d'elezione per la lettura di brani d'autore. Ma, come per il divieto di protesta nei centri commerciali, anche in questi spazi semi-pubblici vigono regole ben precise. Ad esempio, durante la promozione del suo libro Downsize This!, il produttore cinematografico Michael Moore si è imbattuto in un picchetto di manifestanti davanti a un punto vendita della libreria Borders a Filadelfia, dove era in programma un incontro di lettura. Moore disse che non si sarebbe mosso fino a che ai lavoratori in sciopero non fosse stato consentito di entrare e parlare per qualche minuto al microfono. Il direttore soddisfò la richiesta, ma i successivi appuntamenti con Moore all'interno delle librerie Borders furono annullati. "Non potevo credere di essere stato censurato in un negozio di libri", ha scritto Moore parlando dell'incidente.29 Così come gli ipermercati si travestono con grande abilità da municipi cittadini, nessuno è in grado di imitare lo spazio pubblico meglio di America Online (AOL), la comunità virtuale di chat, bacheche elettroniche e gruppi di discussione dove non ci sono clienti ma solo "cittadini della Rete". Gli abbonati di AOL hanno tuttavia imparato negli ultimi due anni alcune dure lezioni riguardo alla loro comunità virtuale e ai limiti sui diritti dei suoi cittadini. Anche se fa parte della rete pubblica di Internet, AOL è una specie di mini-rete privatizzata all'interno del Web. L'azienda riscuote la tariffa prevista al momento dell'accesso al servizio e, come il sistema di sicurezza dei centri commerciali, può fissare le regole che i clienti devono seguire mentre si trovano nel sito. Questo era il messaggio che echeggiava tra i cittadini virtuali quando il cosiddetto Community Action Team di AOL ha iniziato a cancellare dai gruppi di discussione tutti i messaggi considerati inadeguati, blasfemi, imbarazzanti o, semplicemente, "indesiderati". Oltre a esaminare i messaggi, il team ha anche il diritto di vietare qualsiasi ulteriore scambio di opinioni tra i compagni virtuali e di sospendere o espellere dal sito e dalla posta elettronica i trasgressori recidivi. Alcune liste, come quella, particolarmente infuocata, che si occupava di politica irlandese sono state chiuse per lunghi periodi di "raffreddamento". I presupposti da cui parte l'azienda sono molto simili a quelli della strategia "degli scaffali" di Wal-Mart e del videonoleggio di Blockbuster. Katherine Boursecnik, vicepresidente di AOL per la programmazione della rete, ha dichiarato in proposito al New York Times: "Il nostro servizio può vantare un grande richiamo su una vasta gamma di persone, ma resta il fatto che siamo anche un servizio rivolto alle famiglie".30 Anche se tutti riconoscono che le discussioni on-line sono terreno fertile per ogni genere di comportamento antisociale (dall'ossessione epistolare alle molestie sessuali), il potere assoluto che quest'azienda ha di stabilire tono e contenuto del dialogo in rete ha fatto nascere lo spettro di una "polizia virtuale del pensiero".31 Il problema, come nel caso di Wal-Mart, è l'imponente quota di mercato controllata da America Online: a metà del 1999 il servizio aveva 15 milioni di abbonati, pari al 43% del mercato statunitense di servizi Internet. Il suo maggiore concorrente, Microsoft, arrivava solo al 6,4%.32 A complicare ulteriormente il quadro, c'è il fatto che la discussione su Internet è ancora uno strumento ibrido, che sta a metà tra fare una telefonata personale e guardare la TV via cavo. Quindi, mentre gli abbonati vedono AOL come una società telefonica, che non ha alcun diritto di intercettare le loro comunicazioni (così come AT(tT non può interrompere le discussioni telefoniche di cattivo gusto), l'opinione dell'azienda è del tutto diversa. A parte le varie fandonie sulla "comunità virtuale", AOL è prima di tutto un impero mediatico "griffato" che esercita sui suoi servizi un controllo tale e quale a quello che la Disney esercita a Celebration, in Florida, dove decide perfino il colore delle recinzioni. Pare proprio che, a prescindere dal successo con cui il settore privato riesce a riprodurre o emulare l'aspetto e l'atmosfera degli spazi pubblici, le tendenze restrittive del processo di privatizzazione hanno il loro modo di farsi vedere. Ciò riguarda non solo gli spazi di proprietà delle aziende, come AOL e i Virgin Megastore, ma anche lo spazio pubblico che viene sponsorizzato o temporaneamente "griffato". Questa situazione è risultata quanto mai evidente a Toronto nel 1997, quando degli attivisti anti-fumo sono stati allontanati con la forza dallo spazio aperto in cui si teneva il du Maurier Jazz Festival, proprio come gli studenti universitari che manifestavano erano stati cacciati dal du Maurier Tennis Open nel loro campus. L'assurdo è che il festival si svolgeva nella piazza principale, Nathan Phillips Square, proprio di fronte al Municipio di Toronto. I contestatori hanno appreso che, anche se la piazza è forse lo spazio più pubblico in assoluto che si possa trovare, anch'essa diventa, nella settimana del festival jazz, di proprietà dell'azienda di sigarette che sponsorizza l'evento. Ecco perché l'intera zona era preclusa a qualsiasi forma di protesta. Quando uno spazio viene acquistato, anche se solo temporaneamente, si modifica per soddisfare le richieste dello sponsor. E quanto più gli spazi pubblici vengono venduti alle aziende o sponsorizzati dai loro marchi, tanto più noi cittadini dovremo giocare secondo le loro regole per poter accedere alla nostra stessa cultura. Forse tutto ciò significa che la libertà di espressione è morta? Certamente no, ma tutto ciò ci fa venire in mente le parole di Noam Chomsky che diceva: "La libertà senza opportunità è un dono del diavolo".33 In una realtà sovraccarica di media e marketing, le opportunità davvero significative per esprimere la nostra libertà, con un tono di voce abbastanza alto da sfondare la barriera degli effetti sonori pubblicitari e infastidire i signori del commercio, stanno scomparendo rapidamente. Senza dubbio, le voci discordi hanno a disposizione le pagine Web, le riviste, i poster, i cartelli dei picchetti e i giornali indipendenti, oltre a un gran numero di crepe nell'armatura aziendale che vengono oggi sfruttate come mai in passato. Ma di fronte a un linguaggio aziendale che si esprime con sinergie a vari livelli e con manifestazioni sempre più sconvolgenti del "significato" dei marchi, il linguaggio della gente comune assomiglia sempre più al piccolo negoziante accanto a un centro commerciale. Come dice Ralph Nader, sostenitore dei diritti dei consumatori: "Esiste una certa tonalità in decibel per esercitare i nostri diritti sanciti dal primo emendamento".34 La censura aziendale si manifesta forse nel modo più disgustoso quando ciò che viene venduto non è un luogo bensì una persona. Come già abbiamo visto, i ricchi contratti di sponsorizzazione nel mondo dello sport hanno inizialmente esercitato la loro influenza decidendo quali logo gli atleti dovevano indossare e in quali squadre dovevano giocare. Ora questa influenza si è allargata fino al punto di decidere che tipo di posizione politica questi personaggi devono sostenere in pubblico. I tempi in cui Muhammed Ali si schierava coraggiosamente contro la guerra del Vietnam vengono oggi sostituiti dall'estremismo all'acqua di rose dell'eccentrica ala della NBA Dennis Rodman, con gli sponsor che spingono gli atleti a essere poco più di un cartellone pubblicitario. Come ha dichiarato una volta Michael Jordan: "Anche i repubblicani comperano la scarpe da ginnastica". Il velocista canadese Donovan Bailey ha imparato la lezione nel modo peggiore. Alcuni giorni prima di vincere la gara olimpica che lo avrebbe consacrato come l'uomo più veloce al mondo, Bailey fu attaccato perché aveva dichiarato a Sports Illustrated che la società canadese "è apertamente razzista tanto quanto quella statunitense". L'Adidas, che inorridiva all'idea che il velocista, una sua proprietà "marchiata", potesse alienarle un gran numero di acquirenti bianchi con un'opinione così impopolare, intervenne mettendolo a tacere. Doug Hayes, vicepresidente della società, dichiarò a The Globe and Mail che quei commenti "non hanno nulla a che fare con il Donovan atleta o con il Donovan che noi tutti conosciamo",35 attribuendo così la dichiarazione a una sorta di alter-ego immaginario dell'atleta che si era temporaneamente impossessato di lui. Un caso simile di censura ha coinvolto il famoso calciatore britannico Robbie Fowler. Dopo aver segnato il secondo goal contro la squadra norvegese Brann Bergen nel marzo 1997, il ventunenne Fowler si rivolse alla folla alzando la maglia ufficiale e mostrò una maglietta rossa con un messaggio politico che diceva: "500 lavoratori portuali di Liverpool licenziati dal 1995". Questa categoria era infatti in sciopero da anni, per protestare contro centinaia di licenziamenti e contro il passaggio al lavoro in appalto. Fowler, anch'egli di Liverpool, aveva deciso di rendere pubblica la vicenda mentre il mondo intero stava guardando. Il calciatore commentò poi ingenuamente l'accaduto: "Pensavo sarebbe stata vista come una semplice dichiarazione".36 Chiaramente si era sbagliato. Il Liverpool Football Club, che raccoglie i profitti derivanti dai messaggi pubblicitari che appaiono sulle divise ufficiali dei calciatori, intervenne per evitare qualsiasi tentativo di emulazione. "Metteremo bene in chiaro con i nostri giocatori che qualsiasi commento riguardante questioni estranee al calcio è assolutamente vietato sul campo di gioco", ha precisato il club con una secca dichiarazione.37 E per avere un'ulteriore garanzia che gli unici messaggi sulle magliette degli atleti sarebbero stati quelli di Umbro o Adidas, la Uefa, l'ente europeo che regola il gioco del calcio, ha inferto un'ulteriore punizione a Fowler con una multa da 2000 franchi svizzeri. Ma questa storia nasconde anche un altro risvolto importante. La maglietta mostrata da Fowler non riportava solo uno slogan politico, ma era anche un sabotaggio pubblicitario: le lettere "c" e "k" della parola "dockers", che in inglese significa appunto "lavoratori portuali", erano state volutamente alterate e ingrandite per riprodurre il logo di Calvin Klein (doCKers). Quando le fotografie della T-shirt sono apparse su tutti i giornali inglesi, l'azienda in questione ha minacciato di intentare causa per violazione del marchio depositato. Se si mettono insieme tutti questi esempi, si ricava un'immagine dello spazio dominato dalle aziende molto simile a un regime fascista in cui tutti dobbiamo fare il saluto al logo e in cui manca qualsiasi opportunità di critica perché i giornali, le reti televisive, i server di Internet, le strade e gli spazi commerciali sono tutti controllati dagli interessi delle multinazionali. E, considerata la velocità con cui questa tendenza si sta sviluppando, abbiamo un buon motivo per allarmarci. Ma attenzione: forse riusciamo a scorgere un mondo non proprio splendido all'orizzonte, ma ciò non significa che ci troviamo già nella realtà da incubo di Brave new World di Aldous Huxley. Tracciando gli organigrammi tentacolari delle strutture di potere societarie e valutando i sogni di dominio mondiale degli amministratori delegati, è facile perdere di vista il fatto che la censura non è affatto così assoluta come potrebbe sembrare a un neo-seguace di Noam Chomsky. Più che di una formula inattaccabile, si tratta infatti di un trend costante, alimentato dalla sinergia e dal crescente ruolo dei grandi marchi, ma non privo di eccezioni. Se è vero, ad esempio, che Viacom sta modellando il mondo con le sue holding Blockbuster e MTV, è vero anche che Simon & Schuster, casa editrice di proprietà della stessa Viacom, ha pubblicato alcune delle migliori critiche sull'incontrollata globalizzazione economica, tra cui Global Dreams di Richard J. Barnet e John Cavanagh, e One World, Ready or Not, di William Greider. Anche NBC e Fox hanno trasmesso, seppur per un breve periodo, la serie TV Nation di Michael Moore, un programma che perseguitava apertamente i pubblicitari e che aveva preso di mira perfino la General Electric, azienda madre della stessa NBC. E se da un lato l'acquisto di Miramax da parte della Disney ha fatto nascere oscuri presentimenti sul futuro della cinematografia indipendente, è stata la Miramax a distribuire il documentario antiaziendale di Moore, The Big One, basato sul suo libro di critica, pubblicato da Random House oggi di proprietà di Bertelsmann. Come questo mio libro, spero, aiuta a dimostrare, che esiste ancora spazio per una sana critica in questo scenario di giganti mediatici. In un certo senso, l'attuale transizione è al contempo meno totalitaria ma più pericolosa. Oggi vi è infatti ancora spazio per una cultura non-sinergica, e le opere critiche più importanti hanno maggiori possibilità di raggiungere un vasto pubblico di quanto sia mai accaduto nella storia dell'arte e della cultura. Ma ciò che viene sempre più a mancare sono gli spazi in cui la mentalità antiaziendale può fiorire, spazi che ancora esistono ma che si restringono sempre più a mano a mano che i magnati dell'industria della cultura si fanno rapire dal sogno di promozioni a livello globale. Il problema è perlopiù una questione di numeri: a livello economico pochi film, libri, articoli di riviste e programmi possono essere prodotti, pubblicati, trasmessi ecc., e lo spazio per quelli che non rientrano nella strategia aziendale dominante si restringe con ogni nuova fusione. Vi è tuttavia la possibilità che l'attuale mania per la sinergia finisca per essere schiacciata dal peso delle sue promesse non mantenute. Blockbuster è ormai un peso morto al collo di Viacom, già soverchiata di debiti. Gli analisti di borsa danno la colpa "alla qualità dei prodotti dei suoi negozi"38 e probabilmente non aiuta il fatto che Blockbuster ha dovuto dedicare intere sezioni dei suoi punti vendita all'esposizione di una trentina di copie dell'inguardabile In & Out di Kevin Kline (o di altri flop della Paramount) perché quelli di Viacom volevano rifarsi almeno in parte delle perdite ai botteghini. Perfino la catena Planet Hollywood, dopo che i suoi famosi centri di "intrattenimento culinario", hanno perso denaro per due anni, ha annunciato nell'agosto 1999 che avrebbe presentato un'istanza di tutela fallimentare. Un altro schema sinergico perfetto sulla carta è stato il lancio del film Godzilla nel 1998. La Sony era convinta di avere già in tasca un successo grazie ai seguenti fattori: una prima al Madison Square Garden, una star su misura per Toys 'R' Us, un budget di 60 milioni di dollari destinato a una campagna pubblicitaria di lancio con un anno di "prossimamente", e una squadra di avvocati agguerriti, pronti a colpire duramente qualsiasi pubblicità indesiderata su Internet. Fattore ancora più importante, grazie a una serie di nuove holding nate dalla fusione delle sale cinematografiche, il film sarebbe stato proiettato su un numero di schermi superiore a quello di qualsiasi altra pellicola: il giorno del lancio, un quinto di tutti i cinema statunitensi avrebbe trasmesso Godzilla. Ciononostante, nessuno di questi fattori è riuscito a compensare il fatto che quasi tutti gli spettatori del film, appena usciti dalle sale, hanno raccomandato agli amici di starsene alla larga, cosa puntualmente avvenuta.39 Perfino il predicatore del branding Tom Peters riconosce che può esistere qualche eccesso ed è impossibile prevedere quando si raggiunge il punto estremo: ci si rende conto della situazione solo quando si è già superato il limite. "Quand'è abbastanza?" si chiede Peters. "Nessuno lo sa per certo. Si tratta di arte. La pressione va bene, ma quando è troppa, diventa deleteria."40 Il fondatore di MTV Tom Freston, l'uomo che ha segnato la storia del marketing trasformando una rete televisiva in un grande marchio, ha ammesso nel giugno 1998 che "si può battere su un marchio fino a farlo morire".41 E infatti, all'inizio del 1998, la borsa di Wall Street ha dato un annuncio inimmaginabile: la Nike si era rovinata da sola, la sua ubiquità non era più un caso di successo del branding, ma era diventata un peso. "La sfida maggiore che la Nike deve affrontare è con se stessa. L'azienda deve trovare una nuova identità, che però vada oltre il suo tradizionale marchio, per poter continuare a dire 'Questa è la Nike'", ha dichiarato Josie Esquivel, analista di borsa alla Morgan Stanley, al New York Times.42 La Nike ha cercato di rispondere a questa sfida. Ma se è possibile che si sviluppi una reazione così violenta contro un singolo marchio, forse un fenomeno simile potrà verificarsi anche a discapito dell'intero processo del branding: forse, dopo che una cultura viene travolta dalla frenesia del branding, quelli che sono stati "marchiati" da Nike, Wal-Mart, Hilfinger, Microsoft, Disney, Starbucks ecc. inizieranno a ribellarsi non solo ai singoli logo, ma anche al controllo complessivo esercitato dalle aziende sugli spazi e sulla libertà di scelta. Forse c'è un momento in cui l'idea stessa del branding raggiunge un punto di saturazione e provoca una reazione diretta non tanto contro un prodotto specifico, che all'improvviso diventa fuori moda, ma contro tutte le multinazionali che stanno dietro ai grandi marchi. Ci sono dei segnali che indicano che questo processo è già in corso. Le comunità di tutto il mondo e le diverse generazioni non sono più accecate dalle sfavillanti promesse di novità e scelta illimitata fatte dai grandi marchi. Invece di spalancare le porte, si stanno organizzando a livello locale per bloccare l'arrivo dei mega-centri commerciali; partecipano a manifestazioni contro lo sfruttamento del lavoro nel Terzo Mondo da parte della Nike e contro l'abuso dei diritti umani perpetrato dalla Shell. Creano movimenti come il britannico Reclaim the Streets - Riprendiamoci le strade, che cerca di recuperare un minimo controllo dello spazio pubblico; appoggiano vertenze anti-trust contro società come la Microsoft. Data la relativa repentinità delle reazioni, questa ondata di ostilità antiaziendale ha chiaramente colto i destinatari di sorpresa. "Fino a qualche mese fa, tutti sembravano pensare che lavorare per la Microsoft fosse una cosa eccitante. Oggi gli stranieri ci trattano come se lavorassimo per la Philip Morris", ha scritto il cronista Jacob Weisberg su Slate. Questo sentimento di stupore generale è condiviso dai dipendenti delle multinazionali in settori diversi. "Non riesco a capire in che modo, ma talvolta sembra che stiamo offendendo le persone", ha dichiarato nel maggio 1999 Donna Peterson, direttore regionale marketing di Starbucks.43 Anche Mark Moody-Stuart, direttore di Royal Dutch/Shell, ha dichiarato a Fortune: "In passato, se andavi al golf club o in chiesa e dicevi di lavorare per la Shell venivi accolto con grande calore. Oggi, la situazione è un po' cambiata, in alcune parti del mondo". E dire che la situazione è "un po' cambiata" è piuttosto. La crescente disillusione nei confronti delle forze descritte in questo volume non è però abbastanza diffusa o profonda da generare una genuina ribellione contro il potere dei grandi marchi. Con ogni probabilità, il risentimento per la pubblicità invasiva, l'usurpazione degli spazi pubblici da parte delle aziende e le prassi commerciali monopolistiche avrebbero prodotto poco più che un banale clima di cinismo se quelle stesse società che ingurgitavano avidamente gli spazi e la libertà di scelta non avessero deciso contemporaneamente di finanziare le incursioni del branding con il taglio dei posti di lavoro. E' questo il tema cruciale, a livello sia economico che umano, che ha costituito la spinta maggiore nella crescita dell'attivismo antiaziendale: "No Good Jobs, Nessun buon lavoro". 1 Wall Street Journal, 22 ottobre 1997, A1. 2 New York Times, 12 novembre 1996. 3 Billboard, 2 ottobre 1993. 4 Globe and Mail, 7 gennaio 1998, C2. 5 "Guardian Angels," New Yorker, 25 novembre 1996, p. 47. 6 Wall Street Journal, 22 ottobre 1997, A1. 7 Sacramento Bee, 10 dicembre 1997, E1. 8 Gail Shister, Knight Ridder Newspapers, 20 ottobre 1998. 9 "Fresh Air," National Public Radio, 29 settembre 1998. 10 Lawrie Mifflin, "ABC News Reporter Discovers the Limits of Investigating Disney," New York Times, 19 ottobre 1998. 11 Jennet Conant, "Don't Mess with Steve Brill," Vanity Fair, agosto 1997, pp. 62-74. 12 " 'Controls Eased' Over Journalists and Artists; Deng Provides New Freedoms for Media," South China Morning Post, 30 settembre 1992, p. 1. 13 Wall Street Journal, 5 marzo 1998. Le dichiarazioni sono state rilasciate il 20 gennaio 1998 in una riunione di Freedom Forum, una fondazione legata ai media. 14 Japan Economic Newswire, 22 ottobre 1993. 15 Seth Faison, "Dalai Lama Movie Imperils Disney's Future in China," New York Times, 26 novembre 1996. 16 "Gere's 'Corner' on Saving Tibet," San Francisco Chronicle, 26 ottobre 1997. 17 Wall Street Journal, 3 novembre 1997. 18 Constance L. Hays, "Math Book Salted with Brand Names Raises New Alarm," New York Times, 21 marzo 1999. 19 Grant McCracken, Culture and Consumption: New Approaches to the Symbolic Character of Consumer Goods and Activities, Indiana University Press, Bloomington 1988. 20 Susan Fournier, "The Consumer and the Brand: An Understanding within the Framework of Personal Relationships," Harvard Business School, Division of Research, saggio di studio, settembre 1996, p. 64. 21 Los Angeles Times, 17 settembre 1997, E2. 22 Sidney Morning Herald, 21 marzo 1998. 23 David Gans, "The Man Who Stole Michael Jackson's Face," Wired, febbraio 1995. 24 Ellen Fitzpatrick, "Lawsuit Doesn't Sink Aqua 'Barbie Girl' Driving Album Sales," Billboard, 27 settembre 1997. 25 Joan H. Murphy, "Mattel - Where Security Isn't Child Play," Security Management, gennaio 1990, p. 39. 26 Chuck Taylor, "Danish Breakout Group Aqua Toys With U.S. Pop Success with Its 'Barbie Girl'," Billboard, 30 agosto 1997. 27 Vancouver Sun, 10 dicembre 1996, C7. 28 Barnes (t Noble Booksellers, documento informativo fornito dall'azienda. 29 Michael Moore, "Banned by Borders," Nation, 20 novembre 1996. 30 Arny Harmon, "As America Online Grows, Charges That Big Brother Is Watching," New York Times, 31 gennaio 1999, A1. 31 Ibid. 32 Ibid. 33 Noam Chomsky, "Market Democracy in a Neoliberal Order," Conferenza Davie, Università di Cape Town, maggio 1997, ristampa in Z Magazine, settembre 1997, pp. 40-46. 34 Estratti da "Corporatism and Plutocracy," discorso tenuto all'Università di Harvard in data ignota. 35 James Christie, "Bailey Satellites Do Damage Control," Globe and Mail, 17 luglio 1996. 36 Michael Walker, "Scally? Not Me, says Fowler," Guardian, 19 aprile 1997. 37 Nick Harris, "Footballer Falls Foul of the Rules," Independent, 22 marzo 1997. 38 Associated Press, 23 aprile 1997, dichiarazione di Jill Krutick, analista dell'intrattenimento alla Smith Barney. 39 John Lippman, "Godzilla Opening Weekend Receipts Disappoint Despite Big Ad Campaign," Wall Street Journal, 26 maggio 1998. 40 Peters, The Circle of Innovation, p. 349. 41 "MTV Man Warns about Branding," Globe and Mail, 19 giugno 1998. 42 "Nike's Problems Don't Seem to Be Short Term to Investors," New York Times, 26 febbraio 1998. 43 Globe and Mail, 8 maggio 1999. 1 Wall Street Journal, 22 ottobre 1997, A1. 2 New York Times, 12 novembre 1996. 3 Billboard, 2 ottobre 1993. 4 Globe and Mail, 7 gennaio 1998, C2. 5 "Guardian Angels," New Yorker, 25 novembre 1996, p. 47. 6 Wall Street Journal, 22 ottobre 1997, A1. 7 Sacramento Bee, 10 dicembre 1997, E1. 8 Gail Shister, Knight Ridder Newspapers, 20 ottobre 1998. 9 "Fresh Air," National Public Radio, 29 settembre 1998. 10 Lawrie Mifflin, "ABC News Reporter Discovers the Limits of Investigating Disney," New York Times, 19 ottobre 1998. 11 Jennet Conant, "Don't Mess with Steve Brill," Vanity Fair, agosto 1997, pp. 62-74. 12 " 'Controls Eased' Over Journalists and Artists; Deng Provides New Freedoms for Media," South China Morning Post, 30 settembre 1992, p. 1. 13 Wall Street Journal, 5 marzo 1998. Le dichiarazioni sono state rilasciate il 20 gennaio 1998 in una riunione di Freedom Forum, una fondazione legata ai media. 14 Japan Economic Newswire, 22 ottobre 1993. 15 Seth Faison, "Dalai Lama Movie Imperils Disney's Future in China," New York Times, 26 novembre 1996. 16 "Gere's 'Corner' on Saving Tibet," San Francisco Chronicle, 26 ottobre 1997. 17 Wall Street Journal, 3 novembre 1997. 18 Constance L. Hays, "Math Book Salted with Brand Names Raises New Alarm," New York Times, 21 marzo 1999. 19 Grant McCracken, Culture and Consumption: New Approaches to the Symbolic Character of Consumer Goods and Activities, Indiana University Press, Bloomington 1988. 20 Susan Fournier, "The Consumer and the Brand: An Understanding within the Framework of Personal Relationships," Harvard Business School, Division of Research, saggio di studio, settembre 1996, p. 64. 21 Los Angeles Times, 17 settembre 1997, E2. 22 Sidney Morning Herald, 21 marzo 1998. 23 David Gans, "The Man Who Stole Michael Jackson's Face," Wired, febbraio 1995. 24 Ellen Fitzpatrick, "Lawsuit Doesn't Sink Aqua 'Barbie Girl' Driving Album Sales," Billboard, 27 settembre 1997. 25 Joan H. Murphy, "Mattel - Where Security Isn't Child Play," Security Management, gennaio 1990, p. 39. 26 Chuck Taylor, "Danish Breakout Group Aqua Toys With U.S. Pop Success with Its 'Barbie Girl'," Billboard, 30 agosto 1997. 27 Vancouver Sun, 10 dicembre 1996, C7. 28 Barnes (t Noble Booksellers, documento informativo fornito dall'azienda. 29 Michael Moore, "Banned by Borders," Nation, 20 novembre 1996. 30 Arny Harmon, "As America Online Grows, Charges That Big Brother Is Watching," New York Times, 31 gennaio 1999, A1. 31 Ibid. 32 Ibid. 33 Noam Chomsky, "Market Democracy in a Neoliberal Order," Conferenza Davie, Università di Cape Town, maggio 1997, ristampa in Z Magazine, settembre 1997, pp. 40-46. 34 Estratti da "Corporatism and Plutocracy," discorso tenuto all'Università di Harvard in data ignota. 35 James Christie, "Bailey Satellites Do Damage Control," Globe and Mail, 17 luglio 1996. 36 Michael Walker, "Scally? Not Me, says Fowler," Guardian, 19 aprile 1997. 37 Nick Harris, "Footballer Falls Foul of the Rules," Independent, 22 marzo 1997. 38 Associated Press, 23 aprile 1997, dichiarazione di Jill Krutick, analista dell'intrattenimento alla Smith Barney. 39 John Lippman, "Godzilla Opening Weekend Receipts Disappoint Despite Big Ad Campaign," Wall Street Journal, 26 maggio 1998. 40 Peters, The Circle of Innovation, p. 349. 41 "MTV Man Warns about Branding," Globe and Mail, 19 giugno 1998. 42 "Nike's Problems Don't Seem to Be Short Term to Investors," New York Times, 26 febbraio 1998. 43 Globe and Mail, 8 maggio 1999. 3 47